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Introduzione

oṁ ajñāna-timirāndhasya
jñānāñjana-śalākayā
cakṣur unmīlitaṁ yena
tasmai śrī-gurave namaḥ

śrī-caitanya-mano-’bhīṣṭaṁ
sthāpitaṁ yena bhū-tale
svayaṁ rūpaḥ kadā mahyaṁ
dadāti sva-padāntikam

Sono nato nelle più profonde tenebre dell'ignoranza, ma il mio maestro spirituale mi ha aperto gli occhi con la torcia della conoscenza. Offro a lui il mio rispettoso omaggio.

Quando Śrīla Rūpa Gosvāmī Prabhupāda, che ha istituito in questo mondo la missione di soddisfare il desiderio di Śrī Caitanya, mi darà rifugio ai suoi piedi di loto?

vande ’haṁ śrī-guroḥ śrī-yuta-pada-
kamalaṁ śrī-gurūn vaiṣṇavāṁś ca
śrī-rūpaṁ sāgrajātaṁ saha-gaṇa-
raghunāthānvitaṁ taṁ sa-jīvam
sādvaitaṁ sāvadhūtaṁ parijana-
sahitaṁ kṛṣṇa-caitanya-devaṁ
śrī-rādhā-kṛṣṇa-pādān saha-gaṇa-
lalitā-śrī-viśākhānvitāṁś ca

Offro il mio rispettoso omaggio ai piedi  di  loto  del  mio  maestro  spirituale  e  di  tutti i vaiṣṇava. Il mio rispettoso omaggio va anche ai piedi di loto di Śrīla Rūpa Gosvāmī e di suo fratello maggiore, Sanātana Gosvāmī, così come a Raghunātha Dāsa Gosvāmī e a Raghunātha Bhaṭṭa Gosvāmī, a Gopāla Bhaṭṭa Gosvāmī e a Śrīla Jīva Gosvāmī. Offro inoltre il mio rispettoso omaggio a Śrī Kṛṣṇa Caitanya e a Śrī Nityānanda, ad Advaita Ācārya, Gadādhara, Śrīvāsa e ai Loro compagni. Infine, il mio rispettoso omaggio a Śrīmatī Rādhārāṇī, a Śrī Kṛṣṇa e alle Loro amiche Lalitā e Viśākhā.

he kṛṣṇa karuṇā-sindho
dīna-bandho jagat-pate
gopeśa gopikā-kānta
rādhā-kānta namo ’stu te

O Kṛṣṇa, oceano di misericordia e amico degli infelici, Tu sei la fonte della creazione, il capo dei mandriani, l’amante di Śrīmatī Rādhārāṇī e delle gopī. Ti offro il mio rispettoso omaggio.

tapta-kāñcana-gaurāṅgi
rādhe vṛndāvaneśvari
vṛṣabhānu-sute devi
praṇamāmi hari-priye

Offro i miei omaggi a Śrīmatī Rādhārāṇī, regina di Vṛndāvana, la cui carnagione è simile all’oro fuso. O figlia del re Vṛṣabhānu, tu sei molto cara al Signore, Śrī Kṛṣṇa.

vāñchā-kalpa-tarubhyaś ca
kṛpā-sindhubhya eva ca
patitānāṁ pāvanebhyo
vaiṣṇavebhyo namo namaḥ

Offro il mio rispettoso omaggio a tutti i  vaiṣṇava, i devoti del Signore, che come alberi dei desideri possono esaudire le aspirazioni di tutti e sono pieni di compassione per le anime condizionate.

śrī-kṛṣṇa-caitanya prabhu-nityānanda
śrī-advaita gadādhara śrīvāsādi-gaura-bhakta-vṛnda

Offro il mio rispettoso omaggio a Śrī Kṛṣṇa Caitanya, Prabhu Nityānanda, Śrī Advaita, Gadādhara, Śrīvāsa e a tutti coloro che seguono la via della devozione.

hare kṛṣṇa hare kṛṣṇa kṛṣṇa kṛṣṇa hare hare
hare rāma hare rāma rāma rāma hare hare

La Bhagavad-gītā, conosciuta anche col nome di Gītopaniṣad, costituisce l’essenza della conoscenza vedica ed è una delle Upaniṣad più importanti. Esistono già molte traduzioni di quest’opera, pertanto ci si potrebbe interrogare sulla necessità di una nuova presentazione. Ecco dunque che cosa mi ha condotto a produrre la presente edizione.
Un giorno una signora mi pregò di consigliarle  un’edizione  della  Bhagavad-  gītā, e benché ne esistano svariate versioni, indiane e occidentali, non ne avevo trovata alcuna che si attenesse rigorosamente al testo originale. In quasi tutte il commentatore esprimeva la sua opinione personale senza coglierne il vero spirito.

Questo spirito ce lo rivelano le pagine stesse dell’opera. Come chi prende una medicina deve rispettare la posologia, così è opportuno ricevere la Bhagavad- gītā osservando le direttive di Colui che l’ha enunciata. Se desideriamo che un medicinale faccia effetto, non lo assumeremo in modo capriccioso o secondo il consiglio di un amico, ma ci atterremo alle indicazioni allegate o alle istruzioni del medico. Analogamente, la Bhagavad-gītā va accettata secondo le indicazioni del suo autore, la Persona Suprema che l’ha formulata, Śrī Kṛṣṇa.
In ogni pagina si afferma l’identità di Kṛṣṇa: Egli è Bhagavān, Dio, la Persona Suprema. Il termine bhagavān può designare una persona influente  o  un  potente  deva, e sicuramente qui indica che Kṛṣṇa è una personalità di grande importanza, ma occorre anche sapere che Kṛṣṇa è Dio, la Persona Suprema, come confermano tutti i grandi ācārya (maestri spirituali), tra cui Śaṅkarācārya, Rāmānujācārya, Madhvācārya, Nimbārka Svāmī, Śrī Caitanya Mahāprabhu e molte altre autorità dell’India esperte nel sapere vedico. Inoltre, il Signore stesso stabilisce la Sua divinità suprema nella Bhagavad-gītā, divinità che Gli riconoscono anche la Brahma-saṁhitā e l’insieme dei Purāṇa, in particolare il Bhāgavata-Purāṇa o
Śrīmad-Bhāgavatam (kṛṣṇas tu bhagavān svayam). Conviene dunque ricevere gli
insegnamenti della Bhagavad-gītā nel modo indicato dalla Persona Suprema.
Nel quarto capitolo (4.1-3) il Signore afferma:

imaṁ vivasvate yogaṁ
proktavān aham avyayam
vivasvān manave prāha
manur ikṣvākave ’bravīt

evaṁ paramparā-prāptam
imaṁ rājarṣayo viduḥ
sa kāleneha mahatā
yogo naṣṭaḥ paran-tapa

sa evāyaṁ mayā te ’dya
yogaḥ proktaḥ purātanaḥ
bhakto ’si me sakhā ceti
rahasyaṁ hy etad uttamam

Il Signore Si rivolge ad Arjuna spiegandogli che la conoscenza dello yoga di cui si parla qui fu prima rivelata al deva del sole, Vivasvān, che la trasmise poi a Manu, il quale a sua volta la comunicò a Ikṣvāku. Lo yoga insegnato nella Bhagavad-gītā fu dunque trasmesso attraverso una successione spirituale, da maestro a discepolo. Siccome questo sapere col tempo è andato perduto, ora il Signore lo rivela di nuovo, ma questa volta ad Arjuna sul campo di battaglia di Kurukṣetra.

Kṛṣṇa spiega ad Arjuna che gli confida questo sublime segreto perché lui è un devoto e un amico. La Bhagavad-gītā è dunque un trattato destinato soprattutto ai devoti del Signore. Ci sono tre categorie di spiritualisti: i jñānī (filosofi impersonalisti), gli yogī (adepti della meditazione) e i bhakta (devoti del Signore). In questi versi il Signore annuncia ad Arjuna che vuole fare di lui il primo anello di una nuova successione spirituale (paramparā), perché quella originale si è interrotta. Desidera dar vita ad una nuova linea di maestri, che si faranno carico di trasmettere senza alterazioni la conoscenza tramandata  in  passato  dal  deva  del sole ai suoi successori. Vuole inoltre che questa conoscenza si propaghi tramite Arjuna, che sarà l’autorità di riferimento nella comprensione della Bhagavad-gītā. Il Signore ha scelto Arjuna per divulgare il Suo insegnamento perché lui è un Suo devoto, un discepolo diretto e un caro amico. Di conseguenza, chi vuole veramente capire la Bhagavad-gītā deve sviluppare le stesse qualità di Arjuna, cioè dev’essere un devoto unito a Kṛṣṇa da una relazione diretta. Questo legame, però,
può essere stabilito solo diventando devoti del Signore.
Benché si tratti di un tema molto complesso da spiegare, la relazione che unisce il devoto a Dio, la Persona Suprema, si esprime in uno di questi cinque modi:

1. relazione passiva o neutra;

2. relazione di servizio;

3. relazione di amicizia;

4. relazione parentale;

5. relazione amorosa.

Arjuna è unito al Signore da una relazione di amicizia. Naturalmente c’è un abisso che separa quest’amicizia da quella che conosciamo nel mondo materiale. L’amicizia trascendentale non è alla portata di tutti, perché anche se ogni essere ha
una relazione personale col Signore, questa si manifesta solo quando si raggiunge la perfezione del servizio devozionale. Purtroppo, nella nostra condizione attuale non solo abbiamo dimenticato il Signore, ma  anche  la  relazione  eterna  che  ci  unisce a Lui.
I miliardi e miliardi di esseri viventi sono tutti individualmente uniti a Dio    da una relazione eterna. Questa relazione o costituzione propria di  ogni  essere,  perfetta e originale, si chiama svarūpa e  il  servizio  di  devozione  è  il  metodo che consente di riscoprirla. Il piano di perfezione così raggiunto è definito tecnicamente svarūpa-siddhī. Arjuna è un devoto del Signore unito a Lui da un rapporto di amicizia.

Il decimo capitolo ci permette di capire come Arjuna reagisce di fronte al messaggio della Bhagavad-gītā (10.12-14):

arjuna uvāca
paraṁ brahma paraṁ dhāma
pavitraṁ paramaṁ bhavān
puruṣaṁ śāśvataṁ divyam
ādi-devam ajaṁ vibhum

āhus tvām ṛṣayaḥ sarve
devarṣir nāradas tathā
asito devalo vyāsaḥ
svayaṁ caiva bravīṣi me

sarvam etad ṛtaṁ manye
yan māṁ vadasi keśava
na hi te bhagavan vyaktiṁ
vidur devā na dānavāḥ

Arjuna dice: “Tu sei Dio, la Persona Suprema, la dimora finale, la Verità Assoluta. Sei la Persona originale, trascendentale ed eterna, il non-nato, il più puro e il più grande. Illustri saggi quali Nārada, Asita, Devala e Vyāsa lo proclamano, e ora Tu stesso me lo riveli.”

Dopo aver ascoltato la Bhagavad-gītā da Kṛṣṇa in persona, Arjuna riconosce in Lui il paraṁ brahma, il Brahman Supremo. Ogni essere individuale è Brahman, ma Dio, l’Essere Supremo, è il Brahman Supremo. I termini paraṁ dhāma Lo definiscono come il luogo di riposo, la dimora finale  di  tutto  ciò  che  esiste.  Pavitram designa Colui che è puro, esente da ogni contaminazione materiale; puruṣam, il beneficiario supremo di tutti i piaceri; śāśvatam, la Persona originale; divyam, Colui che trascende la materia; ādi devam, Dio, la Persona Suprema; ajam, il non-nato; vibhum, il più grande di tutti.

Poiché Arjuna è l’amico di Kṛṣṇa, si potrebbe pensare che le sue lodi siano eccessive, dettate dall’amicizia, ma per fugare ogni sospetto Arjuna le giustifica nel verso successivo, precisando di non essere il solo a riconoscere in Kṛṣṇa Dio, la Persona Suprema. Condividono questo giudizio Nārada, Asita, Devala, Vyāsadeva e tanti altri saggi, grandi divulgatori della conoscenza vedica, accettata come verità eterna dagli ācārya di tutti i tempi. Non solo Arjuna riconosce l’assoluta perfezione delle parole di Kṛṣṇa (sarvam etad ṛtaṁ manye, “Accetto tutto ciò che mi dici come pura verità”), ma precisa che è estremamente difficile comprendere la natura del Signore, che risulta incomprensibile  anche  per  i  potenti  deva.  Se  neppure  esseri di gran lunga superiori agli umani possono conoscere perfettamente Kṛṣṇa, come potremmo riuscirci noi senza diventare Suoi devoti?

È necessario avvicinarsi alla Bhagavad-gītā con uno spirito di devozione, senza mai pretendere di essere uguali a Kṛṣṇa, senza mai considerarLo un uomo comune o una grande personalità. Kṛṣṇa è Dio, la Persona Suprema. Alla luce degli insegnamenti contenuti nella Bhagavad-gītā e delle affermazioni di Arjuna, che si sforza di coglierne il significato, dobbiamo accettare,  almeno  teoricamente,  che  Kṛṣṇa è Dio. Questo atteggiamento sottomesso ci permetterà di comprendere la Bhagavad-gītā, altrimenti la comprensione dell’opera sarà alquanto ardua, perché si tratta di un grande mistero.

Che cosa si propone la Bhagavad-gītā? Il suo fine è liberare l’umanità dall’igno- ranza insita nell’esistenza materiale. Ogni giorno la gente si trova a dover affrontare svariate difficoltà, come accadde ad Arjuna di fronte all’imminente battaglia di Kurukṣetra. Arjuna si abbandonò a Kṛṣṇa, il Quale gli rivelò la Bhagavad-gītā. Come lui, anche noi siamo immersi nell’angoscia a causa dell’esistenza materiale. In realtà, stiamo vivendo in un’atmosfera di non-esistenza, ma anche se per il momento siamo immersi nell’asat (“ciò che non esiste”), non siamo fatti per vivere sotto la minaccia del non-esistente, perché siamo eterni.

Tutti soffrono, ma ben pochi indagano sulla loro condizione, sulla loro vera identità, sui motivi per cui si trovano in una situazione tanto critica. Fino a quando un essere umano non si chiede perché soffre e non comprende che deve trovare un rimedio a questi mali, non può considerarsi degno di questo nome. L’umanità inizia quando nella mente sorgono questi interrogativi. Il Brahma-sūtra definisce tale ricerca brahma-jijñāsā (athātho brahma-jijñāsā). Se una persona non s’interroga sulla natura della Verità Assoluta, ogni sua attività sarà considerata un  fallimento,  mentre  coloro  che  cercano  di  risalire  alla  causa  della  sofferenza   e si domandano da dove vengono e dove andranno dopo la morte, sono pronti a studiare e a comprendere la Bhagavad-gītā. Occorre  inoltre  che  lo  studente  sincero abbia grande rispetto per il Signore, e Arjuna risponde perfettamente a tutti questi criteri.

Kṛṣṇa scende in questo mondo soprattutto per ricordarci il vero scopo dell’esistenza, visto che abbiamo la tendenza a dimenticarlo. Tra le innumerevoli persone che si risveglieranno al vero significato della vita, una forse svilupperà lo stato d’animo necessario per capire la propria vera natura: per lei Kṛṣṇa espone la Bhagavad-gītā.
La tigre dell’ignoranza ci divora tutti, ma nella Sua infinita misericordia per gli esseri viventi, in particolare per l’essere umano, il Signore fa dell’amico Arjuna il Suo discepolo ed enuncia la Bhagavad-gītā.

Compagno intimo di Kṛṣṇa, Arjuna non può essere soggetto all’ignoranza; se sembra esserlo durante la battaglia di Kurukṣetra è per dare a Kṛṣṇa l’opportunità di rispondere alle sue domande esistenziali a beneficio delle generazioni future. L’umanità saprà allora quale linea di condotta seguire per portare a termine la missione della vita umana.

La Bhagavad-gītā ci porta a comprendere cinque verità fondamentali, di cui la prima è la scienza di Dio, e la seconda la natura intrinseca degli esseri viventi. Dio è l’īśvara, “Colui che dirige”, e gli esseri sono le jīva, “coloro che sono diretti”. Solo uno sciocco si crede libero e non riconosce la propria posizione subordinata. L’essere è sempre subordinato, almeno nell’esistenza condizionata.
Oltre all’īśvara e alle jīva, la Bhagavad-gītā ci parla della prakṛti (la natura materiale), del tempo (la durata totale dell’universo o manifestazione materiale) e del karma (l’azione). Dobbiamo dunque attingere da questo Testo la conoscenza di Dio, degli esseri, della prakṛti (la manifestazione cosmica dove tutti sono impegnati in molteplici attività), del modo in cui è dominata dal tempo e di come gli esseri agiscano all’interno di essa.

Queste cinque verità fondamentali sono la base su cui poggia la Bhagavad- gītā per dimostrare che Dio è il più grande di tutti —che Lo si chiami Kṛṣṇa, Brahman, Paramātmā, Signore Sovrano o in qualunque altro modo. Gli altri esseri partecipano della Sua natura sovrana solo dal punto di vista qualitativo.
La  Bhagavad-gītā  mostra,  negli  ultimi  capitoli,  che   la   natura   materiale  non è autonoma, ma funziona sotto la direzione del Supremo. Kṛṣṇa afferma: mayādhyakṣeṇa-prakṛtiḥ sūyate sa-carācaram, “la natura materiale opera sotto la Mia direzione.” Guardare le meraviglie dell’universo dovrebbe aiutarci a capire che dietro la manifestazione cosmica si trova Colui che ha il controllo di ogni cosa. Nulla può esistere senza un artefice. Sarebbe dunque puerile negare l’esistenza di un dirigente assoluto. Il bambino troverà straordinario il fatto che una vettura proceda da sola, senza essere trainata, ma l’adulto sa che ha un motore e un conducente al suo interno. Il Signore è senza dubbio il “conducente” di tutto ciò che esiste.
Come vedremo nel corso del testo, il Signore spiega che le jīva (anime individuali) sono parti infinitesimali del Suo Essere e fanno parte integrante di Lui. Come le gocce dell’oceano sono salate al pari dell’oceano, come le pagliuzze d’oro sono dello stesso metallo prezioso delle miniere d’oro da cui provengono, così noi, le jīva, possediamo le qualità dell’īśvara supremo, Kṛṣṇa, Bhagavān, ma
in quantità infinitesimale; siamo solo minuscoli īśvara, subordinati, parti integranti della Sua Persona. Se cerchiamo di dominare la natura, tentando per esempio di diventare padroni dello spazio, è perché la propensione a dominare presente in noi si trova in Kṛṣṇa. La Bhagavad-gītā precisa che questa tendenza a volerci imporre sulla natura materiale non fa di noi dei controllori assoluti.

La Bhagavad-gītā ci spiega inoltre che cos’è la natura materiale: è la natura o prakṛti inferiore, mentre gli  esseri  animati  formano  la  natura  o  prakṛti  superiore. In entrambi i casi la prakṛti opera sotto la direzione dei Signore.  Di  genere  femminile, è subordinata a Lui come la sposa al marito; in altre parole, dipende dal Signore, il Suo maestro.
L’essere vivente e la natura materiale sono dunque subordinati al Signore, e la Bhagavad-gītā include gli esseri viventi nella prakṛti, sebbene siano frammenti del Signore. In uno dei versi del settimo capitolo è chiaramente spiegato: apareyam itas tv anyāṁ, prakṛtiṁ viddhi me parām jīva-bhūtāṁ mahā-bāho, yayedaṁ dhāryate jagat “La prakṛti, la natura materiale, è la Mia energia inferiore, ma al di là di questa natura esiste un’altra prakṛti, costituita dall’essere vivente o jīva-bhūta.”

La natura materiale è caratterizzata da tre influenze o guṇa: virtù, passione e ignoranza. Quando questi guṇa si combinano sotto il controllo del tempo eterno generano l’attività o karma. Tali attività hanno luogo da tempo immemorabile e noi soffriamo o godiamo dei loro frutti. Prendiamo ad esempio un uomo d’affari che ha lavorato duramente con intelligenza e ha guadagnato molto denaro: è felice di godersi la sua fortuna, ma se la sua impresa fallisce soffrirà. Questa alternanza di gioia e dolore derivante delle nostre azioni è il karma.

Tra i cinque oggetti di studio della Bhagavad-gītā īśvara (il Signore Supremo), jīva  (l’anima  individuale),  prakṛti  (la  natura  materiale),  kala  (il  tempo  eterno)    e karma (l’azione)— i primi quattro esistono eternamente. Le manifestazioni  della prakṛti sono temporanee, ma non fittizie. Alcuni filosofi presumono che la manifestazione della natura materiale sia falsa, ma la filosofia vaiṣṇava, cioè la filosofia della Bhagavad-gītā, afferma il contrario. La manifestazione dell’universo materiale non è falsa, è reale ma temporanea, come una nuvola che attraversa il cielo o come la pioggia che scende a nutrire i semi; quando la nuvola si allontana o la stagione delle piogge termina, il raccolto si secca. La natura materiale segue un corso simile: si manifesta, rimane per un certo tempo, poi scompare. Poiché questo ciclo si ripete senza fine, la prakṛti è eterna e reale. Il Signore la chiama “la Mia prakṛti”, perché è una delle Sue energie, ma è separata da Lui, mentre l’essere vivente è un’energia eternamente legata a Lui. Il Signore, gli esseri, la natura materiale e il tempo sono dunque eterni e intimamente legati gli uni agli altri; soltanto il karma, i cui effetti possono provenire anche da azioni molto remote, non è eterno. Noi godiamo o soffriamo per le conseguenze delle nostre azioni da tempo immemorabile, tuttavia possiamo modificare gli effetti del karma, e questo dipende dal grado di perfezione della nostra conoscenza. Indubbiamente siamo occupati in un considerevole numero di attività, ma ignoriamo ciò che bisogna fare per sfuggire alle conseguenze dei nostri atti. Tutto ciò è spiegato nella Bhagavad-gītā.

L’īśvara, il Signore, è la coscienza suprema. Anche la jīva, l’essere vivente, essendo parte integrante della Sua Persona, possiede una coscienza. Abbiamo visto che l’essere vivente e la natura materiale sono entrambi prakṛti, cioè energie del Signore, ma solo il primo possiede la coscienza e poiché questa coscienza è analoga a quella del Signore, la jīva-prakṛti è considerata superiore. L’individuo, tuttavia, anche se raggiunge un grado di perfezione molto elevato, non diventerà mai cosciente al massimo grado, non potrà mai eguagliare il Signore e non deve neppure lasciarsi ingannare da teorie che affermano il contrario. La jīva è cosciente, ma non potrà mai esserlo in modo supremo.

Il tredicesimo capitolo della Bhagavad-gītā stabilisce chiaramente la distinzione  tra la jīva e l’īśvara: entrambi sono kṣetrajña, “coscienti”, ma la prima è cosciente solo del proprio corpo, mentre il secondo ha una coscienza  che  si  estende  alla  totalità degli esseri. Poiché vive nel cuore di ogni jīva sotto forma di Paramātmā, l’īśvara è consapevole ad ogni istante delle condizioni psichiche della jīva e la guida in tutti i suoi desideri. Purtroppo la jīva dimentica ciò che deve fare, sceglie un certo modo di agire e s’imprigiona sempre più nella rete del  karma  che si è creata. È costretta a reincarnarsi, a cambiare corpo vita dopo vita, come si mette e si toglie un vestito, e a subire le conseguenze dei suoi atti. Esiste tuttavia un modo per uscire da questo ciclo: è sufficiente situarsi nella virtù, e in uno spirito sano comprendere quali attività adottare. In questo modo, le nostre azioni presenti e gli effetti delle azioni passate saranno modificati. Il karma, dunque, non è eterno, mentre l’īśvara, la jīva, la prakṛti e il tempo lo sono.

L’essere vivente e l’īśvara si assomigliano nel senso  che  le  loro  coscienze sono entrambe trascendentali; d’altronde la coscienza non è un prodotto della materia. La  Bhagavad-gītā  rifiuta  la  teoria  secondo  cui  la  coscienza  apparirebbe a un certo stadio evolutivo della materia. A contatto con la natura materiale la coscienza si manifesta in modo distorto, come la luce che appare colorata quando filtra attraverso un vetro dipinto, ma l’energia materiale non ha alcuna presa sulla coscienza del Signore. Kṛṣṇa stesso lo afferma: mayādhyakṣeṇa prakṛtiḥ. Anche quando Egli scende in questo mondo la Sua coscienza non è inquinata dalla materia; se così non fosse sarebbe inadatto a trattare temi trascendentali, come fa nella Bhagavad-gītā. È impossibile parlare del mondo spirituale finché la coscienza subisce l’influsso malsano della materia. Il Signore è libero da quest’influsso, mentre al momento attuale la nostra coscienza non lo è. La Bhagavad-gītā ci consiglia quindi di purificarla per poter agire secondo la volontà di Kṛṣṇa e conoscere la felicità.
Non si tratta di fermare l’attività, ma di purificarla; l’attività prenderà allora   il nome di bhakti. Sebbene le azioni compiute nell’ambito della bhakti possano sembrare del tutto ordinarie, in realtà sono esenti da ogni impurità. Il profano non vedrà alcuna differenza tra le azioni del devoto e quelle della persona comune, perché ignora che gli atti del devoto, come quelli dei Signore, trascendono i tre guṇa e non sono mai macchiati da una coscienza impura.

Finché la coscienza è contaminata dalla materia, si dice che l’individuo è condizionato. Egli ha una concezione errata del suo vero sé e crede di essere un prodotto della natura materiale; questo è ciò che s’intende per “falso ego”. Chi s’identifica col corpo non può comprendere la propria vera condizione. La Bhagavad-gītā è stata enunciata per liberarci da questa concezione del sé basata sul corpo, e Arjuna assume il ruolo dell’essere condizionato per dar modo a Kṛṣṇa d’istruirlo.
Il primo dovere dello spiritualista è liberarsi dal falso concetto di se stesso. Per raggiungere la liberazione bisogna capire innanzitutto di non essere il corpo fisico. Mukti, la liberazione, significa essere liberi dalla coscienza materiale. Lo Śrīmad-Bhāgavatam ci dà questa definizione: muktir hitvānyatā-rupaṁ svarūpeṇa vyasasthitiḥ. Mukti significa essere liberi  da  una  coscienza  contaminata  dalla materia e situati nella pura coscienza. Poiché tutta la Bhagavad-gītā si propone  di risvegliare questa coscienza pura, è naturale che Kṛṣṇa chieda ad Arjuna,    a conclusione del loro dialogo, se la sua coscienza si è purificata. Avere la coscienza purificata significa agire in conformità con le istruzioni del Signore. Per riassumere diremo che pur essendo parti integranti della Persona Suprema, quindi coscienti, corriamo sempre il rischio di essere influenzati dai guṇa inferiori, mentre il Signore non lo è in alcun modo. Questa è la differenza tra Kṛṣṇa e le anime individuali.

Interroghiamoci ora su che cos’è veramente la coscienza. È la percezione che si ha di se stessi, il fatto di essere consapevoli di esistere. “Io sono”, ma chi sono? Questa percezione varia secondo la nostra purezza. Con una coscienza contaminata, “io sono” significa “io sono il proprietario e il beneficiario di tutto ciò che mi circonda”. Del resto, il mondo materiale esiste perché ognuno pensa di essere il signore e il creatore.
La coscienza materiale poggia su questa doppia percezione: “ sono il creatore” e “sono il beneficiario”. In realtà, questi titoli si applicano solo al Signore, perché l’essere individuale, frammento del Signore, non è né il creatore né il beneficiario, ma il collaboratore. È la creatura che contribuisce al piacere del Creatore. Il suo destino è cooperare col divino, come il pezzo di un ingranaggio collabora al buon funzionamento di un meccanismo  o  un  organo  coopera  al  buon  andamento del corpo intero. Si nutre un albero annaffiando le radici e si nutre il corpo alimentando lo stomaco. Le mani, le gambe e gli occhi non possono godere del cibo direttamente, devono prima dirigerlo verso lo stomaco, da cui l’organismo intero dipende. Questo rapporto esiste anche tra il Signore, Creatore e Beneficiario di tutto ciò che esiste, e gli esseri viventi, Sue creature subordinate. Essendo parti di Dio, gli esseri devono contribuire alla Sua gioia, perché soltanto così troveranno la felicità, come le varie parti del corpo soddisfano le loro esigenze attraverso lo stomaco. Ogni tentativo d’indipendenza può causare solo delusione e frustrazione, come se le dita della mano tentassero di  gustare  da  sole  il  cibo  invece di passarlo allo stomaco. L’essere vivente deve collaborare col Signore, Creatore e Beneficiario Supremo, se vuole conoscere la vera soddisfazione. La relazione che unisce gli esseri individuali al Signore è simile a quella che unisce il servitore al padrone; quando il padrone è soddisfatto, anche il servitore lo è. Dobbiamo quindi sforzarci di soddisfare il Signore nonostante la nostra tendenza a sfruttare l’universo materiale e a crederci i creatori, tendenza che esiste in noi perché in origine esiste in Dio, il vero creatore dell’universo.

Vedremo dunque nella Bhagavad-gītā che il Tutto completo, cioè la Suprema Verità Assoluta, Śrī Kṛṣṇa, Dio, comprende: il maestro supremo (īśvara), gli esseri che sono sotto il  Suo  controllo  (jīva),  la  manifestazione  cosmica  (prakṛti),  il  tempo eterno (kala) e l’azione (karma). Tutto ciò che esiste non è altro che la manifestazione delle Sue energie.

La Gītā spiega inoltre che anche il Brahman impersonale è  subordinato  alla Persona Suprema e completa (brahmaṇo hi pratiṣṭhāham). Il Brahma-sūtra sviluppa questo concetto paragonando il Brahman ai raggi del sole, perché si tratta della luce irradiante dalla Persona Suprema. Conoscere il Brahman impersonale è dunque solo una tappa, incompleta in sé, sulla via della realizzazione della Verità Assoluta, e lo stesso si può dire per la conoscenza del Paramātmā. Si vedrà nel quindicesimo capitolo che Dio, Puruṣottama, Si situa al di là di entrambi.   La Persona Suprema è definita sac-cid-ānanda-vigraha e le prime parole della Brahma-saṁhitā La descrivono in questo modo: iśvaraḥ paramaḥ kṛṣṇaḥ sac-cid-ānanda-vigrahaḥ anādir ādir govindaḥ sarva-kāraṇa-kāraṇam “Kṛṣṇa, Govinda, è la causa di tutte le cause. È la causa originale e la forma  stessa dell’eternità, della conoscenza e della felicità.” Col Brahman impersonale si realizza la Sua eternità (sat), e col Paramātmā la Sua conoscenza ed eternità (sat-cit), ma con la realizzazione della Persona Suprema, Śrī Kṛṣṇa, si percepisce l’insieme di tutte le Sue caratteristiche trascendentali —eternità, conoscenza e felicità (sat, cit e ānanda)— nella loro forma più completa (vigraha).

Credere che la Verità Assoluta sia impersonale significa averNe una comprensione limitata, perché Dio è senza dubbio una persona, la Persona Suprema e Assoluta. Tutte le Scritture vediche lo confermano: nityo nityānāṁ cetanaś cetanānām (Kaṭha-Upaniṣad 2.2. 13). Come ciascuno di noi è un individuo dotato di una personalità propria, così anche la Suprema Verità Assoluta è una persona, ed è questa la più alta realizzazione che si possa avere della Verità, perché include tutti i Suoi aspetti, compresa  la  Sua  forma.  Il  Tutto  perfetto  non  può essere privo di forma, altrimenti sarebbe inferiore alle Sue creazioni. Per essere il Tutto completo deve necessariamente includere ciò che è nella nostra esperienza e ciò che la supera.

Il Tutto perfetto, Kṛṣṇa, la Persona Suprema, possiede potenti energie (parāsya śaktir vividaiva śrūyate), e la Bhagavad-gītā descrive il modo in cui Egli agisce attraverso di esse. Il mondo fenomenico in cui viviamo è un tutto completo in se stesso, perché, secondo la filosofia sāṇkhya, i ventiquattro elementi di cui l’universo è una manifestazione transitoria sono combinati in modo da produrre tutte le risorse indispensabili al suo mantenimento  e  alla  sua  sussistenza.  Non  manca niente e niente è superfluo. Il cosmo si manifesta per un certo periodo  di tempo, determinato dall’energia del Tutto supremo, poi è distrutto sempre secondo il Suo piano perfetto. Gli esseri individuali, infinitesimali unità del Tutto completo, sono anch’essi completi e hanno tutte le facilitazioni per conoscere l’Assoluto, il Tutto perfetto. Se avvertono una qualunque mancanza, questa deriva solo da una conoscenza imperfetta del Tutto perfetto, ma la Bhagavad- gītā, che racchiude l’essenza del sapere vedico, permette di colmare queste lacune.

La conoscenza vedica è completa e infallibile, e gli indù la riconoscono come tale. Per esempio, la smṛti o norma vedica ingiunge a chiunque tocchi  degli escrementi di purificarsi subito con un bagno, ma queste stesse Scritture considerano lo sterco di mucca un purificatore  molto  efficace.  Noi  accettiamo  queste due affermazioni apparentemente contraddittorie, perché provengono entrambe dagli Scritti vedici, e così facendo siamo sicuri di non commettere errori. A conferma di quanto detto, la scienza moderna ha scoperto che lo sterco di mucca possiede proprietà antisettiche.

La conoscenza vedica, di cui la Bhagavad-gītā è l’essenza, è perfetta perché trascende l’errore e il dubbio, non è il frutto di una semplice ricerca empirica, sempre imperfetta perché basata sull’esperienza di sensi imperfetti. Perfetta all’origine, la conoscenza vedica fu trasmessa, come ci rivela la Bhagavad-gītā, da una successione di  maestri  spirituali  autentici  (paramparā),  di  cui  il  primo  anello è il Maestro supremo, il Signore stesso. Noi dobbiamo riceverla in questo modo, proprio come fece Arjuna, che accolse integralmente l’insegnamento di Kṛṣṇa. Non si può  infatti  accettare  una  parte  della  Bhagavad-gītā  e  rifiutarne  un’altra;  si deve assimilarne il messaggio senza interpretarlo, senza togliere o aggiungere niente. Dobbiamo vedere in questo Testo sacro l’espressione più completa della conoscenza vedica, conoscenza di origine trascendentale perché il primo ad esporla fu il Signore stesso.
Le parole del Signore sono apauruṣeya, non paragonabili a quelle degli esseri umani condizionati dalla materia e soggetti a quattro difetti principali che li rendono incapaci di formulare una conoscenza perfetta e completa. Questi difetti consistono nell’avere sensi limitati, nell’essere vittime dell’illusione e soggetti all’errore, e nella tendenza a ingannare gli altri.

La conoscenza vedica non è stata trasmessa da persone esposte a queste quattro imperfezioni, ma proviene dal Signore ed è trasmessa da personalità perfette. Brahmā, il primo essere creato, la ricevette nel cuore, poi la comunicò ai suoi figli e discepoli così come gli fu data dal Signore.
Essendo pūrṇa, “infinitamente perfetto”, il Signore Supremo  non  è sottoposto alle leggi della natura materiale. Dobbiamo quindi essere abbastanza intelligenti da capire che Egli è il creatore originale e l’unico proprietario di   tutto ciò che esiste in questo universo. Nell’undicesimo capitolo il Signore è chiamato prapitāmaha, perché è il creatore di Brahmā, detto anche pitāmaha, “l’antenato”. Non dobbiamo dunque proclamarci proprietari di qualcosa, ma accontentarci della parte che ci è assegnata dal Signore per far fronte alle nostre esigenze.

La Bhagavad-gītā c’insegna il modo di usare la parte che ci spetta. Prima della battaglia Arjuna aveva deciso di non combattere, perché pensava che gli sarebbe stato impossibile godere di un regno conquistato al prezzo della vita dei suoi cari.  Questa  decisione  si  basa  sull’identificazione  col  corpo  e  sul  desiderio  di soddisfarne le esigenze, perché identificandosi col corpo Arjuna crede che i fratelli, i nipoti, i cognati e i nonni siano le espansioni del suo corpo. Per aiutarlo a correggere questa visione errata il Signore gli espone la Bhagavad-gītā, e alla fine Arjuna decide di combattere seguendo le Sue direttive. Arjuna dice infatti: kariṣye vacanaṁ tava, “Agirò secondo le Tue istruzioni.”

Le persone non devono passare la vita a litigare come cani e gatti. Devono usare l’intelligenza per capire l’importanza della vita umana e non comportarsi da animali. Il primo dovere è comprendere il vero significato della vita e raggiungerne lo scopo con l’aiuto delle Scritture vediche, della Bhagavad-gītā in particolare, che ne è l’essenza. Queste Scritture si rivolgono agli esseri umani, non alle bestie. Quando un animale ne uccide un altro non  commette  alcun  peccato,  ma  se  un  uomo uccide un animale per ingordigia è responsabile di aver violato le leggi della natura. La Bhagavad-gītā spiega che ciascuno agisce e si nutre in modo differente, secondo gli influssi che subisce dalla natura, e descrive le azioni e gli alimenti di chi è nella virtù, nella passione e nell’ignoranza. Se sappiamo trarre profitto da questi insegnamenti purificheremo la nostra vita e potremo raggiungere il traguardo finale, il luogo detto sanātana-dhāma, il regno  spirituale  eterno,  situato ben oltre l’universo materiale dove tutto è effimero (yad gatvā na nivartante tad dhāma paramaṁ mama).

La legge del mondo materiale vuole che tutto nasca, sussista per qualche tempo, si riproduca, deperisca e scompaia. Nessun corpo, che sia umano, animale         o vegetale, sfugge a questa legge, ma noi sappiamo che al di là di questo mondo transitorio se ne trova un altro, di natura eterna (sanātana) e immutabile. Il Signore e le jīva sono infatti definiti sanātana nell’undicesimo capitolo.
Poiché il Signore, gli esseri viventi e il mondo spirituale hanno una natura sanātana, un’intima relazione ci unisce al Signore, e la Bhagavad-gītā si propone        di farci ritrovare la nostra funzione eterna, il sanātana-dharma. Ora siamo immersi in ogni sorta di occupazioni temporanee, ma possiamo purificare le nostre attività lasciando ciò che è temporaneo e compiendo ciò che prescrive il Signore. Questo è ciò che s’intende per esistenza pura.

Kṛṣṇa, la Sua dimora assoluta e gli esseri individuali sono tutti sanātana, e la nostra unione col Signore nella Sua  dimora  sanātana  rappresenta  la  perfezione  della vita umana. Il Signore è molto buono con tutti, perché siamo tutti figli Suoi. Nella Bhagavad-gītā dichiara: sarva yoniṣu...ahaṁ bīja-pradaḥ pitā, “Sono il padre  di tutti gli esseri”. Esiste una grande varietà di esseri, perché ognuno ha un karma diverso, ma Kṛṣṇa è il padre comune. Egli scende in questo mondo per richiamare a Sé le anime cadute, condizionate dalla materia, e ricondurle nella dimora eterna, sanātana, dove ritrovano la loro funzione  sanātana  relazionandosi  eternamente con Lui. Per salvare queste anime Kṛṣṇa scende a volte di persona nella Sua forma originale o in altre forme, e altre volte manda i Suoi intimi servitori, che Lo rappresentano nel ruolo di figli, compagni o ācārya.

Possiamo dunque concludere che il sanātana-dharma non è una religione settaria, ma la funzione eterna di ogni essere in relazione al Signore. Śrīpāda Rāmānujācārya dà alla parola sanātana  il significato di “ciò che non ha inizio    e non ha fine” e noi, riconoscendo l’autorità di questo grande saggio, così la interpreteremo.

Il termine “religione” non ha esattamente lo stesso significato di sanātana-dharma,  perché  comporta  l’idea  di  una  fede  e  la  fede  può  cambiare.   Si può appartenere a una confessione, poi abbandonarla  per  adottarne  un’altra,  invece il sanātana-dharma è immutabile per definizione. Non si può privare l’anima della sua funzione eterna, così come non si può togliere all’acqua la sua liquidità e al fuoco il suo calore. Il sanātana-dharma è eternamente parte integrante dell’essere. Accettiamo quindi la definizione che ne dà Śrīpāda Rāmānujācārya, secondo il quale il sanātana-dharma non ha né inizio né fine; non può dunque essere settario, in quanto non è limitato da alcuna restrizione. I seguaci di un credo settario saranno portati a ritenere settario anche il sanātana-dharma, ma riflettendo       a fondo sulla questione, anche alla luce della scienza moderna, si capirà che il sanātana-dharma è la funzione di tutti gli esseri, non solo degli abitanti di questo pianeta, ma di ogni creatura dell’universo.

È possibile risalire all’origine storica di tutte le religioni, ma non del sanātana- dharma, che accompagna eternamente l’essere. Le Scritture rivelate (śāstra) affermano che l’essere in sé non è soggetto alla nascita e alla morte. L’anima non nasce né muore, dice la Bhagavad-gītā; eterna e indistruttibile, sopravvive alla distruzione del corpo materiale temporaneo.
La radice sanscrita del termine sanātana-dharma può  aiutarci  a  comprendere il concetto di “vera religione”. Il termine dharma designa  la  natura  intrinseca  di  un determinato oggetto. Il calore e la luce, per esempio,  non  possono  essere  dissociati dal fuoco; senza questi due elementi la parola “fuoco” non avrebbe più senso. Dobbiamo dunque scoprire la qualità essenziale dell’essere, che lo accompagna sempre e costituisce la sua natura eterna. Questa natura eterna è la sua religione eterna.

Quando Sanātana Gosvāmī chiese a Caitanya Mahāprabhu spiegazioni sulla svarūpa, la condizione intrinseca dell’essere, Egli rispose che la sua funzione eterna è servire Dio, la Persona Suprema. Si può facilmente comprendere da queste parole che ogni essere ne serve un altro ed è in questo modo che gode della vita. L’animale serve l’uomo come un servitore serve il suo padrone. A serve B, B serve C, C serve D e così via; l’amico serve l’amico, la madre il figlio, la moglie serve il marito e il marito la moglie. Tutti, senza eccezione, si dedicano a servire qualcuno. Quando un politico presenta il suo programma, lo fa per convincere l’elettorato della sua capacità di servirlo, e gli elettori gli concedono i loro preziosi voti nella speranza di ricevere in cambio i suoi preziosi servizi. Il negoziante serve i clienti, l’artigiano serve l’uomo d’affari, l’uomo d’affari serve la famiglia, che a sua volta serve lo Stato. In un modo o nell’altro c’è in tutti una tendenza naturale ed eterna a servire. Nessuno è escluso. Possiamo quindi concludere che quest’attitudine al servizio accompagna sempre l’essere, è la sua religione eterna.

Secondo il luogo, l’epoca e le  circostanze  le  persone  professano  una  particolare fede (cristianesimo, induismo, islamismo, buddismo o altro), ma queste designazioni non hanno niente in comune col sanātana-dharma. Un indù può convertirsi all’islamismo, un musulmano all’induismo, e lo stesso vale per un cristiano, senza che questi cambiamenti modifichino l’eterna tendenza a servire. Il cristiano, l’indù, il musulmano saranno sempre i servitori di qualcuno. Professare il sanātana-dharma non significa dunque seguire questa o quella fede religiosa, ma semplicemente ed essenzialmente servire.

Quella che ci unisce al Signore è una relazione di servizio. Egli è il Beneficiario Supremo e noi siamo i Suoi servitori. Esistiamo per il Suo piacere, e se partecipiamo alla Sua felicità eterna vi troviamo la nostra felicità. Non potremo mai essere felici senza di Lui, come le parti del corpo non possono provare alcuna soddisfazione se non sono disposte  ad  accontentare  lo  stomaco.  È  impossibile  essere  felici  se  non si serve il Signore con un amore trascendentale.

La Bhagavad-gītā condanna il culto o il servizio ai deva. A questo proposito leggiamo nel verso venti del settimo capitolo:

kāmais tais tair hṛta-jñānāḥ
prapadyante ’nya-devatāḥ
taṁ taṁ niyamam āsthāya
prakṛtyā niyatāḥ svayā

“Le persone a cui l’intelligenza è stata rubata dai desideri materiali si sottomettono ai deva e seguono, ciascuna secondo la propria indole, le norme relative al loro culto.” È chiaro qui che le persone spinte dalla cupidigia preferiscono rendere culto ai deva piuttosto che a Kṛṣṇa, il Signore Supremo. L’uso del nome Kṛṣṇa non implica niente di settario. Kṛṣṇa significa “la gioia più grande” e le Scritture confermano che il Signore è la culla di ogni piacere: ānandamayo ’bhyāsāt (Vedānta-sūtra, 1.1.12).
Come il Signore, l’essere individuale è pienamente cosciente e cerca la felicità. Il Signore gode di una felicità eterna e anche l’essere conoscerà una felicità simile se si unisce a Lui, collabora con Lui e vive in Sua compagnia.

Kṛṣṇa scende nel mondo dei mortali per rivelare i Suoi gioiosi divertimenti. Quando apparve a Vṛndāvana in compagnia dei giovani mandriani e delle Sue amiche, delle mucche e degli altri abitanti del villaggio, ogni Sua attività era piena di gioia. L’intera popolazione di Vṛndāvana non viveva che per Lui. Un giorno Kṛṣṇa dissuase Suo padre Nanda Mahārāja dal celebrare un culto al deva Indra per dimostrare l’inutilità di adorare gli esseri celesti.

Soltanto il Signore Supremo dev’essere adorato, perché il fine dell’esistenza è tornare da Lui, nella Sua dimora, che la Bhagavad-gītā descrive al verso sei del quindicesimo capitolo:

na tad bhāsayate sūryo
na śaśāṅko na pāvakaḥ
yad gatvā na nivartante
tad dhāma paramaṁ mama

“La Mia dimora non è illuminata dal sole o dalla luna, dal fuoco o dall’elettricità. Chi la raggiunge non torna mai più in questo mondo.”

Questo verso dà una descrizione del cielo eterno. Naturalmente  noi  abbiamo  una  concezione  materiale del cielo; possiamo concepire solo il cielo che vediamo, col sole, la luna e le stelle. Qui invece Kṛṣṇa afferma che il cielo eterno, il mondo spirituale, non ha bisogno del sole, della luna, del fuoco o di altre sorgenti luminose, perché è illuminato dal brahmajyoti, la luce irradiante dal Suo corpo. È difficile raggiungere  altri pianeti, ma non è difficile concepire la dimora del Signore: si chiama Goloka e la Brahma-saṁhītā.(5.37) ne dà una bellissima descrizione (goloka eva nivasaty akhilātma-bhūtah).
Anche se il Signore non lascia mai il Suo regno di Goloka, avvicinarLo non è impossibile, perché Egli scende quaggiù proprio per manifestare la Sua vera forma, sac-cid-ānanda-vigraha. Si rivela a noi così com’è, nel Suo aspetto di Śyāmasundara, in modo che non ci si debba perdere in congetture sulla Sua fisionomia. Purtroppo, quando scende tra noi con sembianze umane e Si diverte in nostra compagnia, gli stolti Lo denigrano, ma la Sua presenza quaggiù non deve indurci a considerarLo un uomo comune, perché solo in virtù della Sua onnipotenza Egli ci rivela la Sua vera forma e ci mostra i Suoi divertimenti, repliche esatte di quelli che si svolgono nel Suo regno.

Dal regno divino, Kṛṣṇaloka o Goloka, emana il brahmajyoti, l’abbagliante luce del mondo divino in cui si bagnano i pianeti spirituali di natura ānanda- maya cin-maya. Chiunque li raggiunga, assicura il Signore, non tornerà mai  più nell’universo materiale (yad gatvā na nivartante tad dhāma paramaṁ mama). In questo universo, anche se raggiungiamo il pianeta più alto (Brahmaloka) —che dire della luna— ritroviamo le stesse circostanze presenti su tutti i pianeti materiali, cioè la nascita, la malattia, la vecchiaia e la morte. Nessuno sfugge a queste quattro caratteristiche dell’esistenza materiale.

Se lo si desidera, si può viaggiare da un pianeta all’altro, ma non con mezzi meccanici; il metodo giusto è rivelato nella Gītā: yānti deva vratā devān pitṛn yānti pitṛ-vratāḥ. Non servono congegni meccanici per fare viaggi interplanetari. Le Scritture vediche spiegano che il nostro universo si divide in tre sistemi planetari: superiore, mediano e  inferiore.  Il  sole  e  la  luna  appartengono  al  primo,  la  Terra  al secondo. Per trasferirsi sui pianeti superiori (Devaloka o Svargaloka), il sole,
la luna o altri, è sufficiente rendere culto al deva responsabile del pianeta che si desidera raggiungere.

La Bhagavad-gītā sconsiglia tuttavia di agire in questo modo,  perché  anche qualora raggiungessimo il pianeta più alto, Brahmaloka (viaggio che con mezzi meccanici richiederebbe forse 40.000 anni –e chi vive così a lungo?–), ci troveremmo sempre di fronte alla nascita, alla vecchiaia, alla malattia e alla morte. Chi raggiunge invece Kṛṣṇaloka, o qualsiasi altro pianeta del mondo spirituale, non incontrerà mai più queste sofferenze. Ricordiamo che fra tutti i pianeti del mondo spirituale, il pianeta supremo è Goloka Vṛndāvana o Kṛṣṇaloka, la dimora originale di Dio, la Persona Suprema e primigenia. La Bhagavad-gītā c’istruisce su tutti questi temi e c’insegna come lasciare il mondo della materia per iniziare una vita veramente felice nel mondo spirituale.

La vera immagine del mondo materiale ci viene fornita nel primo verso del quindicesimo capitolo:

ūrdhva-mūlam adhaḥ-śākham
aśvatthaṁ prāhur avyayam
chandāṁsi yasya parṇāni
yas taṁ veda sa veda-vit

Il mondo materiale è qui paragonato a un albero le cui radici si dirigono verso l’alto e i rami verso il basso. Alberi simili si vedono riflessi nell’acqua dei laghi o dei fiumi: le loro radici sono rivolte verso l’alto e i rami verso il basso. Analogamente, il mondo materiale è il riflesso del mondo spirituale, è solo l’ombra della realtà. Un’ombra non ha sostanza né realtà, ma è l’indicazione di un oggetto reale e concreto che esiste altrove. Nel deserto non c’è acqua, ma i miraggi indicano che l’acqua esiste. Così è per la felicità di cui siamo assetati: non la troviamo nel mondo materiale più di quanto non troviamo l’acqua nel deserto. Esiste, tuttavia, nel mondo spirituale.

Nella Bhagavad-gītā (15.5) Kṛṣṇa indica il metodo per raggiungere il mondo spirituale:

nirmāna-mohā jita-saṅga-doṣā
adhyātma-nityā vinivṛtta-kāmāḥ
dvandvair vimuktāḥ sukha-duḥkha-saṁjñair
gacchanty amūḍhāḥ padam avyayaṁ tat

Solo liberandoci dall’illusione e dal desiderio di prestigio materiale (nirmāna-moha) raggiungeremo il regno eterno (padam avyayam). Quaggiù tutti desiderano titoli onorifici: c’è chi vuole il prestigio della nobiltà, altri della ricchezza o del potere diventando sovrani, presidenti e via dicendo. Essere attaccati a queste designazioni che si applicano solo al corpo significa essere attaccati al corpo. Il primo passo verso la realizzazione spirituale sarà dunque capire che non siamo il corpo. Ora siamo soggetti all’influenza dei tre guṇa (virtù, passione e ignoranza), ma possiamo liberarcene praticando il servizio di devozione al Signore. L’attrazione per i titoli onorifici e l’attaccamento sono il frutto della cupidigia e del desiderio di dominare la natura materiale. Se non si abbandonano queste tendenze non è possibile tornare al regno assoluto, il sanātana-dhāma, che non conosce distruzione; vi avrà accesso solo chi non si lascia sedurre dal fascino dei falsi piaceri e serve il Signore Supremo con devozione.

La Bhagavad-gītā (8.21) aggiunge:

avyakto ’kṣara ity uktas
tam āhuḥ paramāṁ gatim
yaṁ prāpya na nivartante
tad dhāma paramaṁ mama

Avyakta significa non manifestato. Dobbiamo ammettere che neanche il mondo materiale si manifesta completamente ai nostri occhi. I sensi sono così imperfetti che ci è impossibile, per esempio, vedere tutte le stelle del firmamento, ma le Scritture vediche ci danno numerose informazioni su questi pianeti e noi siamo liberi di accettarle o rifiutarle. Lo Śrīmad-Bhāgavatam, in particolare, descrive i pianeti più importanti dell’universo e anche il mondo spirituale, situato al di là della sfera materiale e definito avyakta, non manifestato. Dovremmo tutti avere un profondo desiderio di raggiungere questo regno supremo, perché chi lo raggiunge non torna più nel mondo materiale.

Il verso cinque dell’ottavo capitolo ci spiega come raggiungere la dimora del Signore:

anta-kāle ca mām eva
smaran muktvā kalevaram
yaḥ prayāti sa mad-bhāvaṁ
yāti nāsty atra saṁśayaḥ

“Chiunque, alla fine della vita, lasci il corpo ricordando Me soltanto acquisisce subito la Mia natura. Su questo non c’è dubbio.” Chi nell’istante preciso della morte pensa alla forma personale di Kṛṣṇa andrà sicuramente da Lui, nel mondo spirituale. Mad-bhāvam designa la natura assoluta dell’Essere Supremo, e sac-cid- ānanda-vigraha la Sua forma di eternità, conoscenza e felicità. Il nostro corpo attuale è invece asat, mortale e non eterno, acit, pieno d’ignoranza e non di conoscenza, perché non solo ignoriamo tutto del mondo spirituale, ma ci  sfugge  anche gran parte del mondo materiale. Inoltre, è nirānanda, sede di sofferenza e non di gioia, dato che tutti i nostri tormenti vengono dal corpo. Tuttavia, chi pensa a Kṛṣṇa al momento della morte ottiene subito un corpo sac-cid-ānanda.

Il passaggio da un corpo all’altro avviene secondo regole ben precise. Alla morte il nostro prossimo corpo è già determinato, non da noi ma da autorità superiori in base alle azioni che abbiamo compiuto nella vita che sta per concludersi. Secondo queste azioni saremo elevati o degradati; si può dire dunque che oggi stiamo preparando la nostra vita futura. Un’esistenza tesa all’elevazione al regno di Dio ci garantisce dopo la  morte  il  beneficio  di  un  corpo  spirituale  simile a quello del Signore.

Come abbiamo già visto, esistono tre categorie di spiritualisti: i brahma-vādī, i paramātmā-vādī e i devoti del Signore. Si è anche visto che nel brahmajyoti, il cielo spirituale, si trova una moltitudine di pianeti spirituali, infinitamente più numerosi di quelli presenti nella creazione materiale. Quest’ultima, che pur racchiude miliardi di universi con altrettanti soli, lune, stelle e pianeti, rappresenta solo un quarto dell’intera creazione (ekāṁśena sthito jagat), perché  la  maggior  parte  si  trova nel cielo spirituale. Chi desidera fondersi nell’esistenza del Brahman Supremo è trasferito nel brahmajyoti e raggiunge così il cielo spirituale. Il devoto, invece, che aspira alla compagnia del Signore, è condotto su uno degli innumerevoli pianeti Vaikuṇṭha, dove si trovano le emanazioni plenarie Nārāyaṇa, dotate di quattro braccia e conosciute con nomi diversi, come Pradyumna, Aniruddha e Govinda.
All’ora del trapasso lo spiritualista penserà o al brahmajyoti o al Paramātmā o alla Persona Suprema, Śrī Kṛṣṇa. In ogni caso entrerà nel cielo spirituale. “Non dubitarne”, dice Kṛṣṇa. Invece di rifiutare ciò che non rientra nella nostra immaginazione, dovremmo assumere l’atteggiamento di Arjuna, che dice al Signore: “Credo a tutto ciò che mi hai detto”. Di conseguenza, quando Kṛṣṇa afferma che chiunque in punto di morte si ricordi di Lui in uno dei Suoi aspetti —Brahman, Paramātmā o Bhagavān— entra nel cielo spirituale, le Sue parole non vanno messe in dubbio.

La Bhagavad-gītā (8.6) spiega come sia possibile entrare nel regno di Dio semplicemente pensando a Lui nell’ora della morte.

yaṁ yaṁ vāpi smaran bhāvaṁ
tyajaty ante kalevaram
taṁ tam evaiti kaunteya
sadā tad-bhāva-bhāvitaḥ

“I ricordi che si hanno all’istante della morte determinano le condizioni future.”
Occorre prima di tutto comprendere che la natura materiale è il dispiegarsi di una delle molteplici energie del Signore Supremo, descritte nel loro insieme dal Viṣṇu Purāṇa (6.7.61):

viṣṇu-śaktiḥ parā proktā
kṣetra-jñākhyā tathā parā
avidyā-karma-saṁjñānyā
tṛtīyā śaktir iṣyate

Le energie del Signore sono innumerevoli e inconcepibili, ma illustri eruditi, che furono grandi saggi e nel contempo anime liberate, le studiarono e le divisero in tre gruppi. Esse costituiscono altrettanti aspetti della viṣṇu-śakti, la potenza del  Signore, Viṣṇu. L’energia superiore è definita parā, completamente  spirituale,  e  gli esseri individuali, come già spiegato, appartengono a questa energia. Le altre energie, o energie materiali, sono soggette all’ignoranza. Al momento della morte, o rimaniamo nell’energia inferiore, il mondo materiale, oppure siamo trasferiti nell’energia superiore, il mondo spirituale.

Durante la vita pensiamo sia all’energia materiale sia a quella spirituale, ma come trasferire i nostri pensieri dal materiale allo spirituale quando oggi la maggior parte delle pubblicazioni, come giornali, romanzi e riviste, infesta la nostra mente di pensieri materiali? La risposta è semplice: dobbiamo allontanarcene e dirigere l’attenzione verso gli Scritti vedici, come i Purāṇa, che i grandi saggi ci hanno trasmesso e che costituiscono documenti autentici, parole di verità, ben lontane dalla fantasia. In un verso della Caitanya-caritāmṛta (Madhya, 20.122) si legge:

māyā-mugdha jīvera nāhi svataḥ kṛṣṇa-jñāna
jīvere kṛpāya kailā kṛṣṇa veda-purāṇa

Le anime condizionate hanno dimenticato la relazione che le unisce al Signore Supremo e sono occupate solo in attività materiali, ma Kṛṣṇa-dvaipāyana Vyāsa produsse una grande quantità di letteratura vedica affinché tutti potessero interessarsi al mondo spirituale. Egli divise prima il Veda originale in quattro parti, che spiegò nei Purāṇa, poi, per la gente comune scrisse il Mahābhārata, di cui fa   parte la Bhagavad-gītā. In seguito riassunse l’insieme di questi Scritti vedici nel Vedānta-sūtra, e per guidare le generazioni future ne diede il commento naturale, lo Śrīmad-Bhāgavatam. Dovremmo sempre assorbirci nella lettura di queste opere esattamente come il materialista s’immerge nella lettura di giornali, riviste e altri scritti simili. Saremo capaci così di ricordare il Signore in punto di morte. Lui stesso ci esorta a prendere questa via e con l’uso della frase “senza alcun dubbio”, nel verso sette del capitolo otto, ce ne garantisce l’efficacia:

tasmāt sarveṣu kāleṣu
mām anusmara yudhya ca
mayy arpita-mano-buddhir
mām evaiṣyasy asaṁśayaḥ

“Devi compiere il tuo dovere di guerriero pensando sempre a Me, nella Mia forma di Kṛṣṇa. DedicandoMi le tue azioni e concentrando su di Me la tua mente e la tua intelligenza, Mi raggiungerai senz’altro.”

Kṛṣṇa non consiglia ad Arjuna di abbandonare il suo dovere per pensare    a Lui; no, non gli propone mai qualcosa d’irrealizzabile. Per sopravvivere in questo mondo si deve lavorare, ed è proprio per questo motivo che la società umana è stata divisa in quattro gruppi, secondo le tendenze naturali di ogni individuo:  i  brāhmaṇa  (saggi  ed  eruditi),  gli  kṣatriya  (amministratori  e  militari),  i vaiśya (agricoltori e commercianti) e i śūdra (operai  e  artigiani).  Operai  o  mercanti, soldati, amministratori o contadini, letterati, scienziati o teologi, tutti devono lavorare per vivere. Kṛṣṇa non Si aspetta che Arjuna abbandoni il suo dovere, ma che lo compia pensando a Lui (mām anusmara). Se mentre lottiamo per l’esistenza non ci abituiamo a pensare al Signore, come potremo ricordarLo al momento della morte? Śrī Caitanya ci ha dato lo stesso consiglio: kirtanīyah sadā hariḥ, bisogna sempre cantare o recitare i santi nomi del Signore. Poiché il nome del Signore e il Signore non sono differenti, il consiglio di Kṛṣṇa ad Arjuna (“pensa sempre a Me”) e quello di Śrī Caitanya (“canta sempre i nomi di Kṛṣṇa”) sono la stessa istruzione. Kṛṣṇa e i Suoi santi nomi sono un’unica cosa, perché sul piano assoluto non c’è differenza tra l’oggetto e il nome che lo designa. Dobbiamo dunque esercitarci a ricordare il Signore in ogni ora del giorno e della notte cantando e recitando assiduamente i Suoi  santi  nomi  e  orientando  la  nostra vita in questa direzione.

Come possiamo agire in questo modo? Gli ācārya ci forniscono il seguente esempio. Quando una donna sposata  s’innamora  di  un  altro  uomo,  oppure  un  uomo è attratto da una donna che non è sua moglie, il sentimento che li unisce sarà molto intenso. Influenzati da un simile attaccamento, penseranno costantemente all’amato. Pur compiendo i doveri quotidiani, la moglie penserà sempre all’istante in cui potrà incontrare l’amante, ma curerà più che mai le sue mansioni perché il marito non sospetti del legame. Così, pur compiendo i nostri doveri materiali nel miglior modo possibile, dobbiamo pensare in ogni istante al supremo oggetto d’amore, Śrī Kṛṣṇa. Questo comportamento richiede un sentimento intenso che dobbiamo sviluppare in noi stessi.
Arjuna, pur essendo un guerriero, pensava continuamente a Kṛṣṇa ed era il Suo compagno costante. Il Signore non gli consigliò di abbandonare il campo di battaglia e ritirarsi nella foresta per meditare. Arjuna stesso dirà di essere inadatto a praticare quel tipo di yoga quando Kṛṣṇa glielo illustrerà:

arjuna uvāca
yo ’yaṁ yogas tvayā proktaḥ
sāmyena madhusūdana
etasyāhaṁ na paśyāmi
cañcalatvāt sthitiṁ sthirām

“O Madhusūdana, il metodo yoga che hai appena sintetizzato mi sembra impossibile da praticare, perché la mente è instabile e irrequieta.” (B.g. 6.33).

Il Signore gli dice allora:

yoginām api sarveṣāṁ
mad-gatenāntar-ātmanā
śraddhāvān bhajate yo māṁ
sa me yukta-tamo mataḥ

“Lo yogī che con una fede totale dimora sempre in Me, medita su di Me e Mi serve con amore è il più grande di tutti e il più intimamente unito a Me. Questo è il Mio parere.” (B.g. 6.47).
Chi pensa costantemente al Signore Supremo è dunque il più grande yogī,   il più grande jñānī e anche il più grande devoto. Essendo uno kṣatriya, Arjuna  non può  rinunciare  al  combattimento,  ma  il  Signore  gli  dice  che  se  compie  il  suo dovere pensando a Lui, sarà capace di ricordarLo al momento della morte. È evidente quindi la necessità di abbandonarsi alla Persona Suprema dedicandosi al Suo trascendentale servizio d’amore.

I nostri atti non sono compiuti solo  dal  corpo,  dipendono  soprattutto  dalla  mente e dall’intelligenza, pertanto se entrambe sono assorte nel Signore, i sensi seguiranno e s’impegneranno a loro volta al Suo servizio. Allora, anche se i nostri atti rimarranno in apparenza gli stessi, la nostra coscienza sarà cambiata. La Bhagavad-gītā c’insegna a concentrare la mente e l’intelligenza sul Signore,  perché questo coinvolgimento conduce al regno di Dio. Se la mente è dedicata al servizio di Kṛṣṇa, i sensi lo saranno automaticamente. Nell’assorbimento totale in Kṛṣṇa risiedono dunque il segreto e l’arte della Bhagavad-gītā.

L’uomo moderno ha fatto sforzi enormi per raggiungere la luna, ma non altrettanti per la propria elevazione spirituale. Di conseguenza, supponendo che una persona abbia solo cinquant’anni da vivere, deve usare questo breve lasso di tempo per coltivare il ricordo del Signore con la pratica del servizio devozionale.

śravaṇaṁ kīrtanaṁ viṣṇoḥ
smaraṇaṁ pāda-sevanam
arcanaṁ vandanaṁ dāsyaṁ
sakhyam ātma-nivedanam

(Śrīmad-Bhāgavatam 7.5.23)

Queste nove attività, di cui la più semplice (śravaṇam) consiste nell’ascoltare il messaggio della Bhagavad-gītā da un’anima realizzata, ci aiuteranno a dirigere tutti       i nostri pensieri verso il Supremo, permettendoci così di ricordarLo sempre e di ottenere, dopo aver lasciato il nostro involucro carnale, un corpo spirituale adatto a vivere accanto a Lui.

Il Signore dice inoltre nella Bhagavad-gītā (8.8):

abhyāsa-yoga-yuktena
cetasā nānya-gāminā
paramaṁ puruṣaṁ divyaṁ
yāti pārthānucintayan

“Chi medita su di Me, il Signore Supremo, ed è assorto nel Mio ricordo costante, senza mai deviare, è certo di venire a Me, o Arjuna.”

.” Il metodo è semplice, ma per impararlo è necessario avvicinare una persona esperta che lo pratica già: tad vijñānārthaṁ sa gurum evābhigacchet. La mente vola senza posa da un oggetto all’altro, ma bisogna esercitarsi a fissarla sulla forma e sul nome di Kṛṣṇa. Di natura instabile e febbrile, la mente troverà pace solo nella vibrazione spirituale. Se si vuole avvicinare il paraṁam puruṣam, la Persona Suprema, nel regno divino, è in questo modo che bisogna meditare.
La Bhagavad-gītā indica con precisione la via da seguire e i metodi per conse- guire la realizzazione suprema, il traguardo finale. Le porte di questa conoscenza sono aperte a tutti, senza eccezione. Persone di qualsiasi condizione sociale e culturale possono avvicinare il Signore semplicemente pensando a Lui, perché ascoltare le Sue glorie o pensare a Lui sono attività accessibili a tutti.

Nella Bhagavad-gītā (9.32-33) si legge:

māṁ hi pārtha vyapāśritya
ye ’pi syuḥ pāpa-yonayaḥ
striyo vaiśyās tathā śūdrās
te ’pi yānti parāṁ gatim

kiṁ punar brāhmaṇāḥ puṇyā
bhaktā rājarṣayas tathā
anityam asukhaṁ lokam
imaṁ prāpya bhajasva mām

Il Signore afferma che tutti —donne, mercanti, operai o anche persone situate sul gradino più basso della società— possono raggiungere il Supremo. Non è indispensabile avere un’intelligenza superiore, però è imperativo adottare i princìpi del bhakti-yoga e fare del Signore l’obiettivo primario, il summum bonum dell’esistenza. Chiunque applichi gli insegnamenti della Bhagavad-gītā raggiungerà la perfezione della vita e avrà risolto in modo definitivo tutti i problemi. Questo è il significato profondo della Bhagavad-gītā.

In conclusione, la Bhagavad-gītā è un testo trascendentale e occorre leggerlo molto attentamente. Gītā-śāstram idaṁ  puṇyaṁ  yaḥ  paṭhet  prayataḥ  pumān,  afferma la Gītā-māhātmya (1): chi segue sinceramente gli insegnamenti della Bhagavad-gītā è liberato da tutte le sofferenze e le angosce della vita. Bhaya- śokādi-varjitah: sarà liberato da ogni paura in questa vita, e la sua prossima vita sarà spirituale.

La Gītā-māhātmya (2) continua:

gītādhyāyana-śīlasya
prāṇāyāma-parasya ca
naiva santi hi pāpāni
pūrva-janma-kṛtāni ca

“Chi legge la Bhagavad-gītā con sincerità e grande serietà non dovrà più subire, per la grazia del Signore, le conseguenze delle sue colpe passate.”   Il Signore proclama nell’ultimo capitolo (18.66):

sarva-dharmān parityajya
mām ekaṁ śaraṇaṁ vraja
ahaṁ tvāṁ sarva-pāpebhyo
mokṣayiṣyāmi mā śucaḥ

“Lascia ogni forma di religione e abbandonati a Me. Ti libererò dalle conseguenze di tutte le tue colpe. Non temere.” Il Signore Si prende la responsabilità di chi si abbandona a Lui e lo libera dalle reazioni dei suoi errori. La Gītā-māhātmya (3) prosegue poi affermando:

mala-nirmocanaṁ puṁsāṁ
jala-snānaṁ dine dine
sakṛd gītāmṛta-snānaṁ
saṁsāra-mala-nāśanam

“Ci si può purificare con un bagno quotidiano, ma bagnandosi anche solo una volta nell’acqua della Bhagavad-gītā, sacra come il Gange, ci si libera di colpo dalle impurità della vita materiale.”

gītā su-gītā kartavyā
kim anyaiḥ śāstra-vistaraiḥ
yā svayaṁ padmanābhasya
mukha-padmād viniḥsṛtā

La Bhagavad-gītā è stata enunciata da Dio in persona, quindi non c’è alcun bisogno di leggere altri Testi. La letteratura vedica è così vasta che oggi la gente, presa com’è dagli impegni materiali, non avrebbe certo il tempo di leggerla. Tutto questo, però, non è necessario; è sufficiente ascoltare o leggere la Bhagavad-gītā con attenzione e regolarità, perché quest’opera è l’essenza di tutti gli Scritti vedici e contiene le parole stesse di Dio. (Gitā-māhātmya 4)

bhāratāmṛta-sarvasvaṁ
viṣṇu-vaktrād viniḥsṛtam
gītā-gaṅgodakaṁ pītvā
punar janma na vidyate

“Se chi beve l’acqua del Gange ottiene la liberazione, che dire di chi beve l’acqua sacra della Bhagavad-gītā, il nettare del Mahābhārata enunciato da Kṛṣṇa, il Viṣṇu originale!” (Gītā-māhātmya 5) La Bhagavad-gītā scorre dalle labbra del Signore, mentre il Gange sgorga dai Suoi piedi di loto. Non esiste naturalmente alcuna differenza tra la bocca e i piedi del Signore, ma noi comprendiamo che la Bhagavad-gītā è più importante del Gange.

sarvopaniṣado gāvo
dogdhā gopāla-nandanaḥ
pārtho vatsaḥ su-dhīr bhoktā
dugdhaṁ gītāmṛtaṁ mahat

“La Gītopaniṣad  Bhagavad-gītā,  essenza  delle  Upaniṣad,  può  essere  paragonata a una mucca che viene munta dal giovane mandriano Kṛṣṇa. Arjuna è il vitello, e i grandi saggi e i puri devoti sono coloro che bevono il latte nettareo della Bhagavad-gītā. (Gitā-māhātmya 6)

ekaṁ śāstraṁ devakī-putra-gītam
eko devo devakī-putra eva
eko mantras tasya nāmāni yāni
karmāpy ekaṁ tasya devasya sevā

Ai giorni nostri la gente desidera avere una Scrittura, un Dio, una religione e un’attività. Questo verso dice, ekaṁ śāstraṁ devakī-putra-gītam: “Che ci sia un’unica Scrittura per il mondo intero, la Bhagavad-gītā.” Eko devo devaki-putra eva: “Che ci sia un solo Dio, Kṛṣṇa.” Eko mantras tasya nāmāni: “Che ci sia un solo inno, un mantra, una preghiera, e sia il canto del Suo nome —Hare Kṛṣṇa, Hare Kṛṣṇa, Kṛṣṇa Kṛṣṇa, Hare Hare / Hare Rāma, Hare Rāma, Rāma Rāma, Hare Hare.” Karmāpy ekaṁ tasya devasya sevā: “Che ci sia una sola attività, il servizio di devozione a Dio, la Persona Suprema. (Gitā-māhātmya 7)

La Successione dei Maestri Spirituali

Evaṁ paramparā-prāptam imaṁ rājarṣayo viduḥ (Bhagavad-gītā 4.2). La Bhagavad-gītā così com’è è stata ricevuta attraverso questa successione di maestri spirituali.

1. Kṛṣṇa
2. Brahmā
3. Nārada
4. Vyāsa
5. Madhva
6. Padmanābha
7. Nṛhari
8. Mādhava
9. Akṣobhya
10. Jaya Tīrtha
11. Jñānasindhu
12. Dayānidhi
13. Vidyānidhi
14. Rājendra
15. Jayadharma
16. Puruṣottama
17. Brahmaṇya Tīrtha
18. Vyāsa Tīrtha
19. Lakṣmīpati
20. Mādhavendra Purī
21. Īśvara Purī, (Nityānanda, Advaita)
22. Lord Caitanya
23. Rūpa, (Svarūpa, Sanātana)
24. Raghunātha, Jīva
25. Kṛṣṇadāsa
26. Narottama
27. Viśvanātha
28. (Baladeva), Jagannātha
29. Bhaktivinoda
30. Gaurakiśora
31. Bhaktisiddhānta Sarasvatī
32. A. C. Bhaktivedanta Swami Prabhupāda

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